UNA VITA A COLLALTO
di Antonio Menegon
la premessa, l'inizio del libro e un capitolo

Presentazione Venerdì 8 Settembre 2006 ore 20.30 a Collalto

 

 


 

Premessa

Il rumore dei passi nel ghiaino che circonda la chiesa di San Giorgio quasi è di disturbo al visitatore che arriva a Collalto una sera qualsiasi. Nella pace del borgo, tra acacie ed abeti mossi dal vento, c’è la storia di un paese lunga di mille anni. Tra quelle mura medievali distrutte dalla guerra e quel torrione squadrato rimasto in piedi a testimoniare gli antichi fasti c’è la storia di una comunità che è cambiata negli anni, ma che è pur sempre rimasta uguale.
Collalto è luogo di umanità nata dalla sofferenza, dove ancora adesso la gente si identifica con il proprio paese. E lo fanno anche i tanti che da Collalto se ne sono dovuti andare, per trovare lavoro lontano, oppure perché lì non c’erano case da abitare o terreni dove costruirle.
Tanti tornano a respirare l’aria, ad ascoltare i suoni dei boschi e dei ruscelli, ad assaporare il pane fatto come una volta e a perdere lo sguardo dei ricordi tra le brecce delle mura verso quel Quartier del Piave ricco e saccheggiato.
La storia recente di Collalto ha un punto fermo: don Pietro Battistella, parroco per più di quarant’anni nella chiesa di San Giorgio.
Intorno alla figura del prete tante storie di uomini e donne, tanti costumi e tradizioni che piano piano si dileguano e che marcano il percorso inesorabile della nostra società verso l’individualismo.
Ma a Collalto l’umanità resiste, resiste ancora e forse resisterà per tanto tempo. Dipende dagli uomini e dalle donne che vi abitano.
A cosa può servire allora raccontare qualche storia o parlare di un prete se non tentare disperatamente di allungare e mantenere vivo questo sogno? (a. m.)

il libro è disponibile presso le Librerie e Edicole di Susegana,
Conegliano, Vittorio Veneto, Treviso (Canova), Pieve di Soligo, Barbisano,
Falzé di Piave, Sernaglia della Battaglia, S. Lucia di Piave, Mareno, Vazzola e altre.
A Collalto presso il Ristorante Due Torri e ogni seconda domenica del mese
al Mercatino dell'Antiquariato di Collalto e al Mercatino di Ceneda a Vittorio Veneto

èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè



Una vita a Collalto


Arrivò in un tardo pomeriggio di fine settembre in quel paesetto che pareva tenuto su dalle edere che ricoprivano le antiche mura piantate lì dai conti di Treviso fin dal primo Medioevo. C’era nell’aria una nebbiolina autunnale, precoce per la stagione, ma la temperatura era buona e lungo la linea dell’orizzonte si poteva intravedere il cerchio sfuocato del sole farsi largo tra le nuvole basse poco sopra il Piave.
     Giunse a Collalto il ventisei di settembre, magro e longilineo, viso lungo e ossuto, coperto da un persistente pallore, con uno sguardo quasi troppo severo per un prete con meno di quarant’anni, che aveva risposto con scarso entusiasmo “obbedisco” all’ordine del suo vescovo di prender servizio in quel borgo di case, sperduto fra le colline di Susegana.
     Era di venerdì e la domenica ci sarebbe stata festa grande per il suo ingresso ufficiale in paese.
    Don Piero preferì arrivare due giorni prima, insieme all’anziana madre, per prendere confidenza con la sua nuova casa, tanto in canonica da tempo non c’era più nessuno, perché don Gabriele aveva fatto in fretta e furia le valige ed era partito missionario.
     L’arrivo di un prete stabile era molto atteso in paese.
     Don Giacomo era rimasto alla guida della parrocchia per quattro anni; poi don Valentino e don Lorenzo, preti in prestito, non avevano fatto in tempo nemmeno a conoscere tutti i parrocchiani che se n’erano tornati alle loro chiese. E don Gabriele, che doveva invece metter radici profonde nel conglomerato roccioso su cui poggia il paese di Collalto, venne mandato precipitosamente in Africa a sostituire un missionario ammalatosi di malaria e rientrato in Italia per curarsi. Così la parrocchia rimase senza pastore per un po’ di mesi, fino a che non arrivò don Piero.
     I segni di una guerra che aveva visto il paese tanti anni prima incrociare il fronte austro-italiano e macchiare di rosso il fiume che scorre poco più a valle, non erano ancora del tutto scomparsi. Persisteva quel profondo senso di desolazione che le guerre lasciano intriso dentro i muri delle case scampate al crollo, e che è difficile cancellare persino da quelle abbattute e del tutto ricostruite. Affiorava una povertà distribuita equamente tra la popolazione, ma vissuta con grande dignità e rispetto reciproco. Solo che a pochi chilometri sorgeva già la "Zoppas" e il miracolo economico era alle porte, ma questo non avrebbe intaccato Collalto ancora per tanti anni.
     Il due di giugno del 1940, a venticinque anni compiuti, per Pietro Battistella c’era stata l’ordinazione sacerdotale e poi la prima messa a Ceggia, nel Veneziano.
     L’arrivo a Collalto è del 1952, a sette anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, meglio sarebbe dire a trentaquattro anni dalla fine della Grande Guerra, perché a Collalto le ferite profonde delle bombe italiane catapultate dal Montello non si sono mai rimarginate, condizionando inesorabilmente e per sempre la vita della comunità.
     All’inizio del secolo Collalto è un borgo di case aggrappate ad un cocuzzolo dove sorge un castello dal vissuto antico e glorioso. Dall’anno Mille, quando sulla sommità del colle viene eretto un embrionale fortilizio, nessun barbaro o veneziano che fosse riuscì a violare il castello, se non quel Furio Camillo Collalto, figlio del celebre Collaltino di Collalto, che poco dopo il 1580, con inaudita violenza fratricida, saccheggiò l’antica dimora di famiglia seminando morte e terrore.
     Furono però le bombe della prima guerra mondiale a cambiare del tutto la sorte dell’antico borgo.
    Con almeno una decina di uomini morti e quattro mutilati per cause belliche, il paese di Collalto paga un caro prezzo alla Grande Guerra, ma è soprattutto con i nove decessi per fame, registrati nel censimento post bellico, che la tragedia si presenta in tutta la sua drammaticità: Giacomo Peruzzetto è trovato morto con parte delle mani divorate nello strazio della fame.
     La gente, inerme e soffocata dall’angoscia, in preda ad una composta rassegnazione di fronte alla mostruosità dell’evento bellico, non riusciva a reagire e anche quando si erano concluse le ostilità la popolazione aveva continuato per lungo tempo la sua quotidiana battaglia per sopravvivere alla fame, in attesa di tempi migliori.
     Chiusa l’attività della distrutta filanda, trasferita poi al Barco di Ponte della Priula, viene meno l’unica industria del paese, dove, in condizioni non certo agevoli, lavoravano quasi trecento persone, provenienti anche dal circondario.
     Il paese sprofonda nella miseria più nera e la fame distribuisce pellagra a piene mani: manca tutto.
Le case del nucleo storico sono per la gran parte crollate o pesantemente danneggiate dalle bombe. Dell’antico castello è rimasto solo il grande torrione squadrato e le possenti mura squarciate dalle esplosioni. Le case coloniche, sparse sulle colline, hanno subito gravi danni quando non sono state del tutto distrutte: la comunità è in ginocchio e in tanti hanno scelto la strada dell’emigrazione.
     Per quanti sono rimasti, l’abitudine alla povertà più cruda divenne una regola vissuta quotidianamente, quasi con ostentato orgoglio.
     Quando parecchi anni dopo a Collalto era arrivato don Piero l’indigenza era vinta, ma non del tutto la povertà. In paese c’era comunque un modo di collaborare tra le famiglie che, senza far tanto rumore, riusciva sempre a compensare le situazioni di bisogno più grave e che successivamente avrebbe assunto il nome di solidarietà.
    
Don Piero si sarebbe inserito in punta di piedi dentro questi delicati meccanismi fino a diventarne il motore e l’involontario ispiratore.
 

èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè

San Martino e San Giorgio

 Quando arrivò dai Dalla Longa era quasi sera. I ragazzi avvistarono don Piero al limitare del bosco che spingeva la bicicletta nera da uomo con i freni a bacchetta, il grande fanale e con quel portaoggetti di filo metallico cromato bloccato con due bulloni proprio al centro del manubrio. Spingeva la bici lungo la stradina sterrata e ripida con una fascia d’erba al centro che porta alla casa giallognola dalla caratteristica fascia rossa delle proprietà rurali della famiglia Collalto.
     Ines chiuse la porta della stalla e si precipitò a lavarsi le mani, asciugandole sul grembiule sporco, mentre i ragazzi correvano a più non posso incontro al prete nella speranza che, come l’ultima volta, ci fosse una caramella a testa da spartire.
     “Tuo marito dov’è – chiese don Piero – e Marco?”.
     “Mio marito è ancora nei campi e Marco ...è in stalla”.
     Marco era un ragazzone piuttosto basso, di novanta chili, aveva quasi l’età di don Piero ma il suo faccione tondo con gli occhi a mandorla e i capelli irsuti tradiva il destino avverso che gli aveva riservato la natura. Vestiva la giacca in grossa tela blu che col freddo utilizzavano i bovari dei Collalto e che Ines aveva allargato del tutto per farci entrare il cognato. Indossava poi un paio di calzoni della stessa stoffa e dello stesso colore della giacca, tenuti su da una cintura in cuoio annerita dal sudore, e sotto il gilet in lana aveva una camicia chiara a piccoli quadri marrone, con i polsi rammendati infinite volte, ma pulita e ben stirata.
     Marco non faceva nulla, se ne stava seduto tutto il giorno su uno sgabello in legno a tre gambe, guardava fissamente nel vuoto e non parlava mai. A chi gli rivolgeva la parola sorrideva, mostrando i denti gialli intervallati da ampi interstizi. Probabilmente capiva tutto, sedeva a tavola senza disturbare, ma durante il giorno era sempre lì, fuori dalla stalla, immobile come l’albero di melograno che copriva per buona parte la luce del portico. Quando arrivava qualcuno, lo facevano entrare in stalla dove aveva un altro sgabello poco discosto dalla botola del sovrastante fienile da cui venivano calati fieno e paglia per le mucche e i buoi.
     “Tenetelo all’aria che gli fa bene” – sentenziò don Piero, che non riusciva a digerire la costumanza di nascondere in stalla i disgraziati e di vergognarsi delle malattie. “Sono prove del Signore e un giorno saranno premiate”.
     Dalla stessa strada irta e stretta che aveva portato don Piero fino dai Dalla Longa spuntarono due grossi buoi aggiogati che trascinavano un carro con l’ultimo fieno della stagione.
     Giuseppe era un uomo robusto, dallo sguardo fiero, che aveva tirato su una famiglia con tre figli grazie soltanto al suo lavoro e che si era fatto carico di quel fratello maggiore rimasto solo quando anche la vecchia madre aveva lasciato questa terra.
     Quella sera non era d’umore buono e il prete se ne accorse subito.
     “Cosa c’è che non va, Giuseppe?” – lo affrontò.
     “Lo sa meglio di me don Piero che a San Martino ci hanno detto di lasciare la casa e noi non abbiamo i soldi per riscattare la mezzadria e nemmeno sappiano dove andare ...con mio fratello poi”.
     Giuseppe aveva una bestemmia che gli offuscava il pensiero e che gli stava esplodendo nel petto, ma il timor di Dio che gli aveva insegnato sua madre e il sincero rispetto per la figura di don Piero ebbero il sopravvento.
     “Sta’ tranquillo Bepi, parlerò io col conte e vedrai che troveremo una soluzione – disse il curato – ma adesso non entrare in casa con quel muso, ci sono i tuoi figli e c’è tua moglie”.
     “Ormai è quasi sera, si fermi a mangiare un piatto di fagioli con noi, don Piero” - disse Ines.
     Il prete, che aveva già da un pezzo individuato tra gli odori dell’aia anche quello dei fagioli fatti bollire con la cotica di maiale a cui da tempo era stato sottratto il lardo, allargando le braccia e alzando gli occhi al cielo in segno di ringraziamento al Signore fece cenno di sì.
     Don Piero entrò in cucina non senza essersi pulito le scarpe sul ferro sottile, piatto e ricurvo, infilato nel cemento dello scalino tanti anni prima, precisamente nel 1925 come recitava la scritta tracciata forse con un chiodo proprio nell’anno della ristrutturazione post bellica della casa colonica.
     Prima di sedere a tavola tutti fecero il segno della croce, don Piero impartì la benedizione e subito dopo bevve un sorso di un vino rosso un po’acidulo, ricoperto di piccoli fiori bianchi, che da tempo reclamava il frutto della nuova vendemmia.
     Nella grande cucina, sotto le lunghe travi fresche del bianco estivo della calce, c’era una luce fioca. Gli unici mobili erano una credenza in legno verniciata di un verdino mescolato con altre tinte recuperate da vecchi vasi, tanto da renderlo un colore indecifrabile. C’erano poi un baule enorme in abete rosso dove potevano nascondersi tra i pochi effetti almeno un paio di bambini e un cassone senza coperchio, pieno zeppo di legna, posto vicino al focolare dove bruciavano alcuni ceppi di gelso.
    Dal soffitto pendevano, srotolate, due lunghe carte adesive inzaccherate di mosche, sopravvissute alla quotidiana disinfestazione della cucina con un potente insetticida irrorato con una piccola pompa a stantuffo.
     Sulla credenza erano sistemate le foto incorniciate dei genitori di Giuseppe, accanto ad una grande terrina che si riempiva di ciliege e pesche in estate, di mele, pere e noci in autunno e di nulla per il resto dell’anno.
     La lampadina emanava una luce fioca e giallognola perché la casa dei Dalla Longa era l’ultima della lunga linea elettrica che partiva dalla cabina posta appena fuori del paese. In quell’atmosfera che pareva essersi fermata a cinquant’anni prima don Piero invocò sommessamente il Signore. “Da’ la forza a questa povera gente di riscattarsi, altrimenti come possono credere ancora nella tua misericordia?”.
     Finita la cena, Giuseppe accompagnò il prete fin sulla porta. Questi gli strinse tutte due le mani e guardandolo dritto negli occhi gli disse: “abbi fede e prega il Signore”.
     Quella sera prima di ritirarsi in canonica don Piero tirò fuori dalla tasca la chiave della chiesa. Entrò dalla porta laterale. C’erano solo poche candele accese. Passò davanti all’altare maggiore omaggiando il Signore con un saluto reverente e si inginocchiò di fronte alla statua della Madonna posta sull’altare della navata destra. Era un devoto della Madonna da sempre, ma il suo legame con quella statua di gesso colorata di bianco e d’azzurro da cui pendeva una coroncina del rosario era diventato indissolubile fin dal giorno in cui si era recato personalmente a Padova per comprarla, in un negozio nei pressi della basilica del Santo.
     Don Piero nelle sue preghiere e nelle sue riflessioni si rivolgeva sempre a Dio quasi per rispetto gerarchico, ma quando la preghiera faceva vibrare forte le corde della sua fede e le lacrime solcavano il volto scavato dalla magrezza, don Piero si trovava sempre davanti alla statua della Madonna.
     Quella sera pregò Maria con una intensità tale che la statua pareva sorridergli, ma lui non poté vederla perché dietro al volto coperto dalle grandi mani aveva gli occhi inondati da un pianto dirotto.
     La mattina dopo don Piero inforcò la bicicletta di buon’ora, percorse con lena da ciclista la strada polverosa che porta verso il Colle della Tombola e Colfosco, poi imboccò veloce la discesa fino al castello di San Salvatore e ancora giù per quella carrareccia ripida che si era fatta improvvisamente più larga ed era stata asfaltata di fresco con del bitume magro e chiaro, fatto di pietrisco appuntito incollato al terreno con poco catrame.
     Entrò nel grande piazzale inghiaiato della cantina dal cancello riservato alle maestranze. Fuori c’erano già una decina di carri che aspettavano il loro turno alla pesa, prima di scaricare l’uva raccolta il giorno prima finché c’era stata luce e lasciata tutta la notte, sotto il portico, al riparo dalla rugiada.
     Don Piero raggiunse gli uffici dell’Amministrazione Collalto che erano da poco passate le otto e chiese subito di essere ricevuto dal conte.
     “Arriverà verso le otto e mezza” – disse con voce fioca l’anziana impiegata che nell’azienda faceva un po’ di tutto ed aveva appena finito di spolverare la scrivania del conte.
Rambaldo di Collalto arrivò puntuale alle otto e mezza con la Renault 4 color beige e i suoi due bassotti sul sedile posteriore. I cani abbaiarono nervosamente alla tonaca nera del prete ma il conte li zittì subito con un energico “buoni!”.
    “A cosa devo la sua visita don Piero?”.
    “E’ per via dei Dalla Longa che a San Martino devono lasciare la casa e non hanno dove andare. Faccia qualcosa per quella povera famiglia, sono gente per bene, timorati del Signore e poi hanno anche ...quel ragazzo”.
     Ci fu una breve pausa nel silenzio più assoluto che a don Piero parve un’eternità. Il conte, portata la mano destra sul mento e arricciati i lunghi baffi, si schiarì la voce con un colpo di tosse.
“Riferisca loro che ne parleremo fra un anno ...ma mi dica, la chiesa è tutto a posto? Gli affreschi li facciamo vero?”.
     Don Piero inspirò lentamente e profondamente. Pensò alla Madonna e al più sfortunato dei Dalla Longa e rispose: “in chiesa entra acqua proprio da dietro l’altar maggiore, bisognerebbe ripassare almeno quel pezzo di tetto, ma già che ci siamo, prima che arrivi l’inverno, sarebbe forse meglio ripassarlo tutto”.
     Il conte annuì e si prese nota sulla carta ingiallita di un quaderno a righe, ma insistette per sapere di quegli affreschi che il curato aveva commissionato ad un artista arrivato ormai ad una certa fama, tale Bepi Modolo da Santa Lucia di Piave, presso il cui studio già armeggiava con i pennelli il giovane Elio Poloni da Ponte della Priula.
     “Gli affreschi si faranno. La curia mi ha promesso sessantamila lire ma come può ben immaginare non bastano. Ho pensato che in uno dei due potremmo raffigurare l’arrivo a Collalto delle Sacre Spine portate dalla sua famiglia all’epoca delle crociate, coi colori del casato, ben s’intende, e magari anche col suo ritratto da qualche parte ...signor conte”.
     “Non serve arrivare a tanto. Mica ho intenzione di abbandonarvi; sono o non sono il giuspatrono della chiesa di San Giorgio?”.
     I due uomini si guardarono fissamente negli occhi. Quelli del conte sorridevano sotto le sopracciglia folte e aggrottate, quelli del prete bassi per non tradire anche loro un soddisfatto sorriso. Poi si strinsero la mano.

èèèèèèèèèèèèèèèèèèèèè
INDIETRO


 

 

Informazioni aemme@nline.it

 

Home Page

Libro

Storia Associazioni